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venerdì 4 settembre 2009

ΚΑΤΑ ΤΟΝ ΔΑΙΜΟΝΑ ΕΑΥΤΟΥ


Parigi. La città per eccellenza di ogni artista. Una città magnifica, che ti prende per mano e ti coinvolge e ti avvolge in un clima nuvoloso, ma caldo, contemplativo. E non puoi fare altro che lasciarti trasportare con lei in un’allegra danza. Tra le vie, i cafè, le vetrate opache, le gonne e i capelli al vento, le luci soffuse, le risa. Ogni sedia o tavolino dei cafè di Parigi è rivolta verso i passanti. Come a sottolineare che lo spettacolo da guardare è la città stessa e la gente che ne viene incantata. Che si perde in essa. Io ero li. E non in un posto qualunque. Ero a Père Lachaise. Ero lì davanti, davanti alla tomba di Jim Morrison.
Avrei voluto tanto guardare con disprezzo tutte quelle ragazzine con la faccia contrita. Avrei voluto prendere per i capelli lunghi e neri tutti quei cazzo di fighetti che inconsciamente lo imitavano senza neanche rendergli una bella immagine. E avrei voluto picchiarli. Avrei voluto tanto capire chi cazzo era stato a poggiare quella Marlboro lì sopra la lapide vicino alle rose e ai fiori. E avrei voluto almeno comprare qualche fiore anch’io. Ero in un cimitero, davanti ad una tomba e non stavo facendo altro che il turista. Avrei voluto andarmene. Ho sempre creduto poco in Jim Morrison. Non dico che non ammirassi la sua musica o la sua poesia, ma mi ha sempre dato l’idea di qualcosa di artefatto. Una posa poco naturale. Nell’idea che me ne ero fatto io era così. Forse solo perché lo conoscevo poco. Anzi, non l’ho mai conosciuto. Strano come uno si faccia un’idea di qualcun altro e pensi addirittura di conoscerlo senza magari averlo mai visto, senza averci mai parlato o aver parlato di lui con qualche suo amico, un parente, con la sua compagna. A me capita spesso. E mi capita anche di farmi o un’idea completamente positiva o completamente negativa. Beh, Jim Morrison non era nella piccola cerchia di coloro di cui mi sono fatto un’idea completamente positiva. Eppure qualcosa mi impedì di essere impulsivo, di gettare al vento l’attimo di quella presenza lì. Di andarmene senza essere stato in silenzio insieme a tutti gli altri lì davanti. Solo per osservare qualche minuto la sua tomba.
Ho cominciato a pensare a quando toccherà a me. Di morire intendo.
Io non sono come Jim Morrison. Non potrei esserlo e in qualche modo per giustificare ciò che sono mi dicevo che forse, in fondo in fondo, io sono migliore di lui. Non chiedetemi il perché però ero convinto che fosse così. Forse, in fondo in fondo, ripeto, io ho dato un senso migliore a ciò che sono. Per questo sarei voluto arrivare lì davanti e disprezzare dall’alto coloro che con quasi le lacrime agli occhi lo osannavano a moderno Gesù Cristo. Eppure non ci sono riuscito. Ho pensato che una volta morto nessuno si sarebbe preso tanta premura per le mie frasi piene di significati. Ho pensato che nessuno mi seppellirà mai in un cimitero a Parigi. E nessuno metterà mai una Marlboro vicino ai fiori, periodicamente freschi, della mia tomba. E tutto questo perché io non ero Jim Morrison. Io non sarò mai Jim Morrison. Allora ha cominciato a farsi strada nella mia mente un’idea molto chiara: io desideravo quella tomba, io desideravo quella Marlboro sulla lapide priva di foto. Ho provato prima invidia, poi risentimento, poi sprezzo. Ma mano a mano che lo disprezzavo lo rendevo un po’ più umano rispetto alla visione gesù-cristica che in realtà avevo anche io. Ho cominciato a vederlo come un semplice Jim. E proprio in quel momento l’ho sentito più vicino. Ho pensato che nella mia vita potrei benissimo aver già conosciuto un Jim Morrison. E allora il mio volto si è disteso, il disprezzo è sparito, la mia mano ha preso una Marlboro dal pacchetto e me la sono adagiata sulle labbra, lentamente. Ho preso la scatoletta dei fiammiferi dallo zaino, ne ho acceso uno e dopo averlo avvicinato alla punta della sigaretta ho aspettato che una piccola folata di vento lo spegnesse. E con il sapore dolciastro del fumo in bocca ho pensato una sola cosa prima di andarmene: “Alla tua Jim”.


Molignì

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